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Collavorare, alla Palmarini: condivido tutto (con qualche se, ma, forse…)

Conosco Nicola Palmarini da 10 anni, ho avuto il piacere di lavorare personalmente con lui e gli riconosco un’abilità unica, e cioè il saper cogliere, da minuscoli frammenti quotidiani, quale sarà l’impatto sociale delle tecnologie che oggi sono di pochissimi eletti (se non solo nella testa di qualche scienziato), e domani saranno alla portata di tutti. Palmarini incarna quello che Steve Jobs aveva definito essere la quintessenza di Apple: stare “at the intersection of technology and the liberal arts”. E proprio lì, fermo a questo incrocio e con l’occhio puntato all’orizzonte più lontano, Palmarini esercita la sua capacità di connettere i punti per svelarci la visione d’insieme, di indicarci la direzione che diventerà mainstream.

Quello che mi stupisce, e un poco mi rincuora e onora, è che nonostante io e Palmarini abbiamo background culturali, esperienze professionali e storie personali profondamente diverse, su temi tanto importanti quali la leadership e le dinamiche relazionali all’interno delle imprese, siamo giunti a considerazioni che hanno molte più caratteristiche in comune che differenze da sottolineare.

La tesi di Palmarini, espressa nel libro “Lavorare o Collaborare” (ed. Egea, settembre 2012) è che siamo di fronte a uno stravolgimento radicale dei modelli organizzativi, guidato da tre elementi ben precisi:

  1. Il fattore abilitante tecnologico, che per comodità possiamo considerare all’interno della categoria dei social network ;
  2. Il coraggio (per ora solo potenziale, tranne che in pochissimi casi) di leader illuminati e determinati massimizzare il potenziale dei propri collaboratori;
  3. la volontà dei singoli di esprimere al meglio le proprie competenze e passioni.

Tutto ciò darà vita a innovativi modelli organizzativi, che saranno caratterizzati da apertura e trasparenza totale, collaborazione massiva, ridisegno delle relazioni (funzionali, manageriali, sindacali) che regolano la vita delle aziende. E qui mi fermo, perché non voglio anticipare troppo di questo testo, che deve essere letto in prima persona: 200 pagine che scorrono come un romanzo giallo, con una ricchezza di idee e di linguaggio davvero insolita per un libro che compare in una collana di business.

Preferisco invece andare dritto ad alcuni punti che secondo me richiedono alcune riflessioni, approfondimenti, distinguo.

Primo: nella sua brillante introduzione, il professor Bartezzaghi traccia l’evoluzione delle teorie organizzative, che vanno dal taylorismo di inizio ‘900 fino ai modelli di funzionamento a rete delle aziende del 2000. Dalla teoria alla pratica, e cioè dal fascino dei modelli universitari alla realtà di 15 anni vissuti in azienda, mi sorge un dubbio: in questo percorso evolutivo siamo davvero così avanti? Oggi in grande maggioranza le aziende vivono una fase dominata da standardizzazione dei processi, centralizzazione decisionale, burocratizzazione, sclerotizzazione operativa permeata dal terrore di uscire dalle strettissime linee guida aziendali, e che spesso conduce ad una paralisi decisionale e al rallentamento operativo. A mio parere questa è la chiave di lettura della condizione di tante aziende multinazionali attive oggi in Italia.

Secondo: perché collaborare? Nel testo di Palmarini non sono riuscito a trovare una risposta pienamente soddisfacente. Il tema del disegno dei meccanismi premianti (e disincentivanti) sarà secondo me centrale per scardinare 100 anni di taylorismo (e fannullismo, doppiogiochismo, correntismo, giustificazionismo – del tipo “e ma io gli ho mandato la mail è lui che non ha risposto”); io credo che non saranno sufficienti una leadership trasformazionale, unita alla volontà  di emergere e contribuire al meglio da parte dei singoli.

Terzo e ultimo (e secondo me più importante): dei mille (professionisti e manager) che oggi abbiamo a bordo nella nostra navicella spaziale azienda lanciata verso splendidi destini di crescita profittevole, spinta dal propulsore della collaborazione, in un’organizzazione auto-regolata e pienamente trasparente, quanti ne rimarranno una volta che contiamo quelli che ci vogliono mettere la faccia, e che dimostrano di portare valore reale alla comunità? E gli altri? Abbiamo già il problema degli esodati, dei cassintegrati, dei modelli produttivi insostenibili in questo Paese… ci manca solo che a questo aggiungiamo il problema dell’inutilità dei burocrati parassiti! Fuori dalla provocazione: sarà importante fornire gli strumenti (non tecnologici ma cognitivi e comportamentali) per abilitare modelli “collavorativi”, per usare il neologismo di Palmarini. Il cambiamento va sempre guidato e gestito, e questo sì che sarà un processo che richiederà inspirational leadership, e una fortissima volontà di perseguire fino in fondo il processo di trasformazione.

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